Del maiale non si butta via niente, recita un vecchio proverbio. E pensandoci bene è proprio vero! Persino le ossa trovano un utilizzo appropriato, diventano… gelatina.

la tradizione della carne di maiale

Il maiale nella tradizione Amiatina si macellava dopo la befana, a inverno inoltrato, quando il freddo si fa più intenso, e prima dell’austerità della quaresima. L’ultima parte della vita la passava all’ingrasso, mangiando quello che avanzava dalla raccolta delle castagne e mangiando le ghiande che cadono dalle querce in autunno. All’uccisione del maiale partecipava, forse in alcuni casi partecipa ancora, tutta la famiglia. Chi prepara il fuoco, chi mette a bollire l’acqua, poi si affilano i coltelli, si pesano sale e pepe. C’è chi prepara le spianatoie, o i capistei. Non pensate che ci sia qualcosa di cruento, certo che il maiale muore, ma nella serie di gesti che questa comunità mette in atto c’è in realtà, una storia d’amore e di rispetto. E il fatto che ogni parte ne venga usata, ne è testimonianza. C’è un norcino che dirige i lavori, a volte il nonno, o la nonna, il più esperto insomma. Poi ognuno sa cosa fare. La prima cosa da fare appena l’animale è morto si raccoglie il sangue, che diventerà buristo. Poi si divide in due, si tolgono gli intestini, che vengono immediatamente lavati, il cervello, lessato. Poi è la volta dei linfonodi (animelle) che vanno nella padellaccia, insieme ai reni, e altre interiora e che verranno consumate subito, cotte in padella appunto e mangiate con la polenta dolce.
Cuore, polmone e fegato, diventano ammazzafegato, e poi salsicce e tutti tagli “nobili”. Le ossa finiscono in forno con le patate, il lardo in un tegame che bolle per giorni sul fuoco e alla fine filtrato, si divide in strutto e ciccioli. Le cotenne, gli zampucci e la testa, diventano soppressata, poi la guancia, la pancetta e tutti salumi, il prosciutto, la saporitissima spalla. E poi salatini, salsicce, da mangiare fresche e da conservare, la zia, salume che si insacca nell’intestino cieco del maiale, ed ancora col fegato e la rete, i fegatelli legati con un bastoncino di finocchio, elemento ergonomico per eccellenza che cuce e insaporisce insieme.

La cultura popolare del maiale era resiliente senza saperlo. Questo significa oggi non lasciare andare le nostre origini, riscoprire i valori del passato per affrontare le sfide del futuro. In capo a due giorni, l’animale era sistemato, salato, insaccato, messo a stagionare. In molti casi fino a Pasqua, quando si interrompeva la quaresima e si riscoprivano le schiacce con i friccioli, il capocollo, la zia appunto, salume di lunga stagionatura. E intorno al maiale si consumavano due tempi, quello dell’attesa, alcuni prodotti si consumavano poi solo ad Aprile, e quello dell’abbondanza, anche solo per un giorno, e poi fino a tutto il carnevale (carne levare appunto), in cui ci si illudeva di un’umile ricchezza.